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Soldati afghani |
Il Garda era malinconico, Kabul molto di più. Ci piovevano le bombe, ci giravano i carroarmati. E, quella domenica – era Pasqua –, loro se ne andarono alla spicciolata. Al diavolo la nazionale, al diavolo l’Afghanistan. Al diavolo anche la partita di beneficenza che avrebbero dovuto giocare, al Bentegodi. Una celebrazione del centenario del Verona. Pure in ritardo, a dirla tutta: la data di fondazione dell’Hellas è il 1903, e la gara si disputa nel 2004. Il 13 aprile. Nove uomini in fuga. Passaporto afghano, arrivati in Veneto su invito della comunità solidarista “Popoli”. Spariscono durante una passeggiata per le vie strette di quella Peschiera che li aveva ospitati. L’anfitrione, al camping-residence “Villaggio dell’Uva”, è il conte Piero Arvedi, presidente del Verona, ricco possidente della zona, che in seguito morirà, nel 2009, per i postumi di un tragico incidente stradale, di ritorno da una trasferta a Cesena, tamponato, in corsia d’emergenza, da un polacco che si era ubriacato per l’amore infranto per una donna. È, quello del basso lago, l’ampio territorio, tra campagne e aziende agricole, che fiancheggia il parco divertimenti Gardaland: intravedendo un Colorado Boat, l’Ikarus e la ricostruzione della Valle dei Re, gli afghani avevano iniziato a immaginare il loro, di paese dei balocchi. In tuta e scarpe da ginnastica, se ne vanno così.
Il ct della selezione, Mir Alì Asgar Akbarzola, parla di “una bravata. Motivi politici? Ma no, più che altro è l’attrazione per l’idea dell’agio, del benessere”. Eppure non importano tanto le Adidas ultimo modello, i giubbini da vela di Prada o le macchine veloci. Via, noi non ci torniamo sotto il piombo, nel paese che brucia. Addio Kabul, addio per sempre. Nomi e ruoli dei fuggitivi: il portiere titolare Mhammad Nader e la sua riserva, Jamshed. Tre difensori: Ahmmad Zia Aazemy, Basher Sadat e Rohollà. Due centrocampisti, Najibollha Karim e Shafiq Akbar Zada, e due attaccanti: il capitano Ahammad Zaki e Said Thair Sha.
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Piero Arvedi |
Verona era triste, in quei giorni. L’Hellas era in crisi profonda, rischiava la retrocessione in C1. Soltanto una settimana prima aveva perso per 6-0 al Partenio, contro l’Avellino di Zdenek Zeman, beccando cinque “paste” solo nel primo tempo. La squadra era stata contestata con un fitto lancio di uova, da parte di centinaia di tifosi, alla ripresa degli allenamenti. Un fiacco 0-0 in casa, con il Messina, la vigilia di Pasqua, non aveva placato le ire di un pubblico che si sentiva gabbato, tradito, truffato. Ma nulla poteva descrivere i patemi dei nove che se n’erano andati. Non c’erano sconfitte sportive, non c’erano calci di rigore o colpi di tacco o cross sbagliati. Non si fecero vedere, non si fecero sentire. Non chiamarono nemmeno Abdullah Amirian, il portavoce della delegazione dell’Afghanistan, elegante e raffinato architetto che viveva a Firenze, e che parla un impeccabile italiano. Neppure con Mohamed Anwar Jekdalak, il presidente del Comitato olimpico locale. Jekdalak è stato il miglior amico di Ahmad Shah Massud, il leone del Panshir, che aveva studiato le tattiche di guerriglia di Mao, Giap e Che Guevara, che aveva combattuto i sovietici, negli anni ’80. Era stato ucciso in un attentato, nel 2001, due giorni prima dell’attacco alle Twin Towers, a New York, con una bomba, inserita in una telecamera, da due arabi che si erano finti giornalisti di un’emittente marocchina: Al Qaeda, per una versione, i talebani, per un’altra, ma la paternità di quel gesto non fu mai rivendicata da nessuno. Con lui, si era spento una possibilità di libertà. L’unica, forse, per un paese martoriato da violenze e miserie.
I talebani, già. Con loro il calcio era stato nascosto, in Afghanistan, tramutato in un motivo d’imbarazzo, un’offesa per la morale. Raccontò, in quei giorni, proprio il ct Akbarzola: “Nel 1994 ho disputato l’ultima partita da capitano della nazionale, contro l’Uzbekistan. Ero un terzino destro. Un giorno stavamo dirigendo un allenamento per i ragazzi più piccoli. Sono arrivati i talebani e ci hanno chiesto come mai stessimo praticando quello sport. Non sono neanche riuscito a parlare: con il calcio del fucile mi hanno spaccato i denti. E non abbiamo giocato più”. Orrori da cui sparire. E si erano come dissolti, i nove. Le prime indicazioni riferiscono del probabile tentativo di riparare in Germania o in Olanda oppure in Francia, dove più facilmente avrebbero potuto trovare sostegno, vista la più massiccia presenza di afghani. Con il sogno di ottenere lo status di rifugiati politici. Erano, in patria, semplici lavoratori, con impieghi ordinari: operai, bottegai, gente che era uscita dalle mostruosità del regime talebano e che, ora, viveva con la guerra per la strada, davanti alla porta di casa. Erano giovani e forti, poco più che ventenni. E l’Europa, l’Italia, quelle strade appena addolcite dallo struscio pasquale, con il profumo dell’aria soffice e appena inebriante del lago, erano state una tentazione irresistibile. Si erano guardati e si erano detti: “Non torniamoci, in Afghanistan. Kabul è troppo cattiva. I nostri familiari? Troveremo un buon posto, chissà, a Berlino, a Amsterdam, o ad Amburgo, o a Rotterdam, o a Parigi. E allora li chiameremo. Col tempo, se saremo fortunati, li faremo venire da noi. E ci riabbracceremo, finalmente. E staremo in pace”.
Già, questo dovevano aver pensato. Il calcio? Ci avrebbero perso poco, a rinunciarci, visto che il professionismo, in Afghanistan, non esisteva più dal 1987. Pane, il pallone, non ne avrebbe portato, e la gloria era un’utopia per gli ingenui. Intanto, però, c’era quella partita da giocare. Akbarzola si arrabattò chiamando qualche calciatore recuperato qua e là, nell’Occidente più vicino, soprattutto in Inghilterra, o sceso da Francoforte. Era martedì, i nove erano scomparsi da due giorni. La serata era umida e fredda, seppure fosse primavera. Allo stadio di gente se ne vide pochina, nonostante, in apertura, ci fosse stata una sfida di vecchie glorie: i campioni dello scudetto del 1985 e altri ex della storia gialloblù. Ma l’Hellas se la passava così male che gli entusiasmi erano ai minimi, e l’umore della piazza era sotto i tacchi.Il Verona 2004, sonoramente fischiato all’ingresso in campo, vinse per 5-0 sull’Afghanistan, un paio di gol li fece Emiliano Salvetti, piedi vellutati, da Zidane di provincia, e la perenne saudade per la Romagna, da cui veniva, l’aria riservata e pochi sorrisi. Tutto finì con una risottata e qualche bicchiere di prosecco, nella sala accoglienza dello stadio, tra Preben Elkjaer, Hans Peter Briegel e Pierino Fanna.
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Adrian Dumitru Mihalcea |
Per sapere dei nove, nel frattempo, si è mossa anche la BBC, con il suo ufficio di corrispondenza, a Roma. Le indagini portano a delle supposizioni: la probabile partenza dalla stazione ferroviaria di Peschiera, con l’Eurocity diretto a Monaco di Baviera. Ma, poco per volta, in tanti vengono colti dal pentimento, dalla paura per i propri cari, in Afghanistan, per le possibili ritorsioni. Ed emergono nuove verità. Salta fuori che già prima della partita col Verona, quatto di loro hanno chiamato, dalla Germania, per rientrare e giocare: non sarà, tuttavia, così. Un altro viene fermato dalla polizia di frontiera, a Chiasso: con sé ha soltanto una borsa della spesa. Ma nessuno di loro è sul volo Air One che, alle 18 di mercoledì 14 aprile, con scalo ad Abu Dhabi. Dagli Emirati, il ritorno a Kabul. E, intorno a quegli uomini in fuga, sale una cortina fumogena. Qualcuno sostiene che, uno dopo l’altro, si siano arresi e abbiano accettato di andare in Afghanistan. Altri, i più, assicurano che avrebbero ottenuto ospitalità nelle comunità dei loro connazionali con cui avevano preso contatto, nel resto d’Europa. Protetti dalla clandestinità, prima, e poi liberi. E c’è chi garantisce che in molti, sui campetti polverosi di un arrondissement, o fra i palazzi di Norimberga, o nei tornei dei circoli dopolavoristici della Ruhr, calcino ancora il pallone. Con le pance appena un po’ più sporgenti, con i baffi meno scuri. Ricordando quella Pasqua a Peschiera, e quel treno che correva via veloce, pieno di desideri. Nel frattempo, a giugno di quell’anno, il Verona, riuscì a salvarsi, vincendo le ultime quattro partite del campionato. E, in una di queste, a Venezia, l’attaccante romeno Adrian Dumitru Mihalcea segnò dopo un coast-to-coast a metà tra Maradona e Weah, settanta metri con il pallone incollato ai piedi. Una magia: fuga per la vittoria. Come quella dei nove. Kabul era così distante che non ci arrivavano nemmeno le cartoline.
Matteo Fontana
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