Wednesday 1 February 2012

ARSENAL-MILAN, C'ERA UNA VOLTA IL CALCIO DEI SOGNI


Tensione durante una partita dell'Arsenal con il Man Utd, 1990

Ci sono stati tempi in cui, dalle tribune di Highbury, partiva il coro “Boring boring Arsenal”. Arsenal noioso, Arsenal di corridori e con pochi piedi buoni. Eppure era anche un Arsenal che vinceva. Con George Graham in panchina, Alan Smith e Niall Quinn che segnavano con la forza di fisici da centravanti vecchio stampo. Con i chilometri macinati da David Rocastle e da Michael Thomas, the history man, quello del gol del 2-0 ad Anfield, nel 1989, quello del campionato conquistato e di “Febbre a 90°” e Nick Hornby. Tony Adams beveva ancora a rotta di collo, ma era un califfo, in difesa. Una linea epica, addirittura diventata citazione cinematografica in “Full Monty”, quando i protagonisti, per coordinarsi nel balletto, si rifanno alla trappola del fuorigioco dell’Arsenal. Dixon, Adams, Bould, Winterburn: uomini in trincea. Ed erano, quei Gunners a cavallo tra gli eighties del tathcherismo e della broken England e i nineties con la nascita della Premier League, gente di lotta. Che governava, ma con il vigore dei muscoli. L’estro lo conferiranno, poco dopo, Paul Merson e Ray Parlour: due tramiti tra il vecchio e il nuovo Arsenal. Ossia, la creatura di Arsène Wenger. Il maestro francese, arrivato a Londra dopo l’era del Monaco e un’esperienza in Giappone, cambia le abitudini dei suoi giocatori e disegna una squadra di puro talento. Non più noiosa, ma divertentissima. Tante le icone di quello stile che, insieme al calcio mitico del Barcellona, rappresenta la più alta cattedra del football europeo nelle ultime due decadi. Dennis Bergkamp, Marc Overmars, Robert Pires, Titi Henry, e dopo Cesc Fabregas, Robin Van Persie, senza scordare l’eleganza di terzini come Ashley Cole, la tecnica di punte muscolari quali Emmanuel Adebayor, o di attaccanti rapaci come Wiltord, e la praticità abbinata alla buona qualità di un Petit, a centrocampo, e poi Freddie Ljungberg. E l’elenco è parziale e fa difetto a tanti altri, a essere franchi.

Arrigo Sacchi
Il Milan ha sempre rappresentato il palato fine del calcio nella città della Madunina. Strano a dirsi, perché l’Inter è bauscia per definizione. Ovvero: strafottente, ganassa, arrogantella nella richieste del bel gioco. D’altro canto, il Diavolo è squadra più popolare. Il Milan dei casciavid, della classe operaia, raccontava Gianni Brera. Ma anche quello di Nils Liedholm, prima, e dopo di Arrigo Sacchi, una specie di Che Guevara della pedata italica. Come disse di sé Luigi XV: “Dopo di me il diluvio”. Sacchi avrebbe potuto utilizzare le stesse parole, quando, nel 1988, trascinò il Milan ad un impetuoso scudetto in rimonta sul Napoli di Diego Armando Maradona. Se l’Arsenal ha fatto la rivoluzione con la lievità del tocco raffinato, il Milan ha puntato tutto sul danaro del magnate Silvio Berlusconi. La sua parabola politica non è cosa di queste pagine, mentre quella calcistica parte da un assunto: il suo approdo nel mondo pallonaro ha rovesciato le carte. Ha segnato la perdita della tradizione, usando come bussola le lire sonanti. Appena sceso dall’elicottero, a Milanello, nel 1986, dopo l’acquisto del club, prese Giovanni Galli, Dario Bonetti, e poi Beppe Galderisi: bandiere di Fiorentina, Roma e Verona. Questo per far capire che, coi soldi, anche la passione si può comprare. Lo stesso avvenne con Lentini, prelevato dal Torino in capo ad un’asta con la Juventus che Berlusconi risolse a proprio favore ma su cui indagarono anche gli organi giudiziari. Tutto questo detto, l’immaginario di un calcio spettacolare, di gran gioco per novanta minuti, intenso ed emotivamente travolgente, quello che era l’obiettivo di Berlusconi, si tradusse in realtà con l’avvento di Sacchi. Una scommessa del presidente rossonero, dato che l’Arrigo, allora, era solamente l’allenatore di un Parma volenteroso di serie B. Che, però, aveva suonato a più riprese il Milan, in Coppa Italia, nel 1987, eliminandolo dalla competizione. Da lì, l’innamoramento berlusconiano e la visione di una chimera realizzabile. E la stessa squadra che si era esaltata con Nordhal e Gren, con il Liedholm giocatore, con Dino Sani, Altafini e Gianni Rivera, intersecò la brillantezza di un calcio ballato con il furore del manifesto profetico del calcio del futuro. Quello di Arrigo Sacchi. Un’eredità filtrata, in forme diverse (talvolta molto all’italiana, per dirla tutta), attraverso le gestioni di Fabio Capello, Alberto Zaccheroni, Carlo Ancelotti e Massimiliano Allegri.

Arsène Wenger
Arsenal e Milan si sfidano negli ottavi di Champions League. L’ultima volta, nel 2008, fu una lezione wengeriana: a Londra, 0-0. A San Siro, Fabregas gioca una partita sontuosa, comanda e segna, al 39’ del secondo tempo, il gol che prenota i quarti. Adebayor, allo scadere, fissa il 2-0. Ora molto è cambiato. Il livello generale del calcio italiano è calato, ma anche l’Arsenal non è più l’orchestra che fu. Gli introiti dati dal nuovo stadio, l’Emirates, non bastano per tenere i pezzi migliori. Wenger ha proposto un nuovo contratto al talismanico Henry, che sta spendendo gli ultimi spiccioli di una carriera magica negli Stati Uniti. Impossibile dire di no a quella che è la propria casa, ma la riflessione che viene è un’altra: dov’è finito l’Arsenal che poteva essere? Certo, con Van Persie c’è Walcott, una covata di giovani destinati a buone, se non buonissime prospettive: Ramsey, Wilshere, Koscielny. Ha trovato un portiere all’altezza in Wojciech Szczesny. Ma il fuoco sacro non risplende più come in passato. Il Milan è tornato allo scudetto dopo sette stagioni. Resta sempre legato alle lune di Zlatan Ibrahimovic, straordinario dominatore dei campionati, ma mai asso di coppa: l’Avvocato Agnelli, l’avesse avuto nella sua Juve (ma gli sarebbe piaciuto? Mah…) non gli avrebbe certo dato il nomignolo che affibbiò a Zibì Boniek, il “bello di notte” per le sue scorribande in ambito europeo.  Sbalordiscono i muscoli di Boateng, un professore come Seedorf ha sempre colpi splendidi, ma non può essere eterno. Ronaldinho è stato una meteora, Pirlo se n’è andato, a fare le sue veci c’è un veterano che è un duro e puro, Van Bommel. Pato sognava Parigi, Tevez è rimasto a Manchester. Sono meno uguali a se stessi, Milan e Arsenal. La poesia è finita con la demolizione di Highbury, San Siro è sempre la Scala del calcio, ma la prosa ha vinto la sua partita.

Matteo Fontana


twitter@teofontana

No comments:

Post a Comment