Friday, 16 March 2012



CONFORMISMO VIRGOLETTATO



Gianni Brera
Sfogliando le pagine sportive dei giornali, qualche considerazione qua e là. Intanto la pura cronaca - essenza del talento e dell’intelligenza del cronista - è (quasi) del tutto sparita. Ammetto, i Gianni Clerici che fanno mezza pagina di Repubblica sulle gambe della Sharapova che danzano gentili sul centrale di Wimbledon, o i Gianni Mura che “attaccano” il quotidiano “pezzo” sul Tour coi paesaggi di Bretagna sono in via d’estinzione. E i Brera e i Palumbo non ci sono più. Le redazioni però oggi danno spazio quasi esclusivamente alle interviste agli addetti ai lavori. Ergo fiumi di inchiostro intrisi di banalità a bella posta. Più comode, certo - il giornalista “chiude” la pagina senza troppa fatica - e maggiormente a prova di “titolo”. Risultato? Pagine stantie, ma per certi versi surreali, se non pacchiane o, addirittura, comiche. Calciatori e allenatori, infatti, recitano sempre lo stesso spartito, malcelando loro stessi scarsa convinzione per quel che dicono (per fortuna aggiungo io, ché se ci credessero veramente sarebbe un insulto alla loro e all’altrui intelligenza).

Scorri le righe ed è tutto un susseguirsi di: “andremo in campo per fare la nostra partita” (e che partita vuoi fare? Quella degli altri?), “daremo il massimo” (pensavo voleste dare il minimo), “scendiamo in campo per vincere” (ah ecco temevo giocaste a perdere, di ‘sti tempi poi con lo scandalo scommesse a uno qualche dubbio viene). O ancora, un attaccante fa tre gol: be’ te lo immagini accorrere in sala stampa tutto eccitato, presumi che stia godendo “come un riccio” e voglia (legittimamente) urlarlo al mondo. E invece tocca sorbirti la sua chiosa da fedele pretoriano: “Non conta il singolo, conta la squadra. Non importa chi segna”. Per non parlare delle infinite ipocrisie: “Non penso al mercato, ma solo alla mia squadra” (e mentre lo dice non vede l’ora di incontrarsi col procuratore) . “Ho sposato il progetto” (i soldi?). “Non esistono titolari e riserve” (va a dirglielo a chi siede abitualmente in tribuna).

Sia chiaro, non chiedo ai media di sfornare personaggi, o di scovare i Best, gli Zigoni e o i Vendrame di turno. Non servono necessariamente “matti”. E mi rendo pure conto che il motivo per cui calciatori e allenatori dicono sempre le stesse cose non è solo svogliatezza, ignoranza, o conformismo innato, ma anche “paura”. Già, paura di rappresaglie del “sistema calcio”, o dei loro stessi club (leggi multe salate), qualora dovessero uscire dal rassicurante coro delle ovvietà.

Non chiedo la luna, dicevo, ma solo un po’ intelligenza in più e una dose di paranoia in meno . E’ troppo?

Francesco Barana

Monday, 13 February 2012


MIRACOLO DI GIULIANI



Il ricordo riecheggia dagli anfratti della memoria. “Miracolo di Giuliani”. Già, Giuliano Giuliani. Il timbro inconfondibile di Roberto Puliero mi catapulta a quella “stagione”. Seconda metà degli anni ’80, gli anni del dopo scudetto. A quell’Hellas, a quel portiere, a quell’uomo affascinante, alto e imponente, cogli occhi profondi che sembravano scrutare sempre al di là dell’orizzonte e lo sguardo malinconico. Un uomo complesso e contradditorio.

Giuliani arriva a Verona la stagione del dopo scudetto, nell’estate del 1985. Rimarrà tre anni, attraversando l’inizio del declino del Verona di Bagnoli: dal “furto" della Juve commissionato all’arbitro Wurtz in Coppa Campioni, all’ottimo quarto posto dell’86-87; fino all’epica delusione di Brema l’anno successivo, la traversa di Iachini e l’eliminazione ai quarti di Coppa Uefa, che nella storia del Verona segnerà lo spartiacque tra le gioie del “prima” (quello che è stato) e le delusioni del “dopo” (quello che sarà).

Un talento mai del tutto espresso quello del portiere romano, nonostante l’ottima carriera, culminata con lo scudetto di Napoli nel 1990 e la spedizione ai Giochi di Seul nel 1988. Motivi caratteriali, “troppo timido ed educato” dirà anni dopo Bagnoli. Un paradosso. Ma i paradossi sono parte attiva nella vita di Giuliani. Così le umane contraddizioni di un ragazzo timido eppure gaudente, distante anni luce dal calciatore medio eppure capace di farsi risucchiare dentro certi stereotipi, profondo appassionato d’arte e abile imprenditore, riservato ma dalle strane frequentazioni. Poco avvezzo al jet set eppure “chiacchierato”. Che beffardamente sprofonda come uomo al culmine della sua carriera di calciatore. Nel 1990 pochi mesi dopo lo scudetto con Maradona, Giuliani scopre di avere l’Aids. Si separa e si spegne nel 1998, tra lo sgomento del mondo del calcio, che però lo dimentica in fretta. Sui di lui cala il silenzio, come non fosse mai esistito. Invece è stato uno dei portieri più forti della sua epoca e uno dei migliori in casacca gialloblù.

Francesco Barana

Sunday, 12 February 2012

The Last Stand





CHELSEA


There is only one way to define Chelsea Football Club. BA and AA. Before Abromovich and After Abramovich. Before the Russian arrived in West London, the Blues were chancers, a club hoping for success but it was never guaranteed, especially under the stale ownership of Ken Bates. A club with a rich history before the oligarch arrived, with working-class heroes such as Peter Osgood and Ron ‘Chopper’ Harris. Chelsea were a far cry from the super-rich club most supporters now associate them with. Nowadays, Chelsea fans are mocked in England as being the latest set of fans dubbed ‘glory supporters,’ being fans who follow the success no matter how far the ground is from your doorstep. Manchester United in England, Madrid in Spain, Juventus in Italy are all victims of ‘glory supporting’, and quite often take away the real ‘soul’ of a club.

The Old Shed End- Stamford Bridge



Before this new breed of fan, Chelsea fans were known as some of the most vociferous, loyal in the land, with a strong connection to London. The Shed End was one of the loudest in Britain. And now? A different Chelsea, a winning Chelsea yes, but it’s not the same. Stamford Bridge can hear a pin drop at times. Some elements still remain, but they are out-numbered by fans on a day trip to Chelsea.


Villas Boas- Chelsea coach

Before Roman Abramovich arrived, Chelsea only had one league title to their name, but also three FA Cups, two League Cups and two Cup-Winners Cups. Many of these trophies were won in the late 90’s under Italian Gianluca Vialli, with star players such as Gianfranco Zola and Roberto Di Matteo. But by the time the Russian billionaire arrived, Chelsea were laboured. Since his arrival, the club has won three league titles, three FA Cups and two leagues cups, as well as finishing runners-up in the Champions League final, one slip from John Terry in the shoot-out proving decisive.


Now under former Porto boss Andre Villas-Boas, Chelsea are struggling in the league and will have full focus on victory over Napoli in the first knock-out round of the European Cup.


NAPOLI


Just as the blues of London have two defined era’s, the Azzurri of Napoli are split by two events. Before Maradona and After Maradona. Before the Argentine arrived at the southerners, Napoli were a big club (the fourth biggest in Italy by fan-base) with nothing to celebrate. When Maradona clinched two Scudetto almost by himself, it created a legend still celebrated today.

In the early days of Serie A, the club based under the shadow of Vesuvius were simply a top half team under English manager William Garbutt, including two 3rd placed finishes, but soon fell away and before the war only survived relegation on goal average. The trend of being nearly men continued well into the 60’s, 70’s and early 80’s, with plenty of second and third places, but nothing to show for their efforts. But by the time a certain Argentine arrived in 1984, Napoli were a club fighting relegation.


Maradona at San Paolo

On his arrival, Maradona was out-played on his first game with the Azzurri by Hellas Verona defender Briegel as the Veronese won 3-1. It was a rare moment, as the Argentina dazzled and wowed fans all around Italy, with Napoli going from nearly men to Scudetto winners in the 1986-87, winning the double. They added a second title in 1989-90 and also won the UEFA Cup against Stuttgart.

Never again would the discriminated Neapolitans have it so good, and the downside to the success was the expectations of the fans rose. As the 80’s turned into the 90’s, Napoli fell in the most dramatic of events. Stars were sold, Maradona left after being exposed as a drug cheat (the press were no longer willing to cover for him) and Napoli were finally relegated to Serie B in 1998 after only two league wins in front of an almost empty stadium. By the early 2000’s Napoli was a shell of itself and finally folded, re-starting in Serie C under current president Aurelio De Laurentiis. Napoli climbed back and after a couple of strong finishes in Serie A finished 3rd last season to seal their Champions League spot.

The Game

The pressure on both coaches is immense heading into the game. Napoli sit 7th, whilst Chelsea are 5th. Both are out of the running for the league title, and both need to work hard to make the Champions League again next year, particularly Napoli with Serie A losing a spot to Germany this season after consistently poor displays in Europe over recent years.

The key for Chelsea is allowing Juan Mata to have the ball and ensuring a fragile defence holds strong against a Neapolitan strike-force that on it’s day can be one of the best in the World. Villas Boas will be keen to ensure discipline in the San Paolo during the away leg, away goals are always key but more so knowing the tendancies and beauty of Napoli’s raids away from home. The Champions League has always remained Roman Abramovich’s main aim ever since arriving in West London, now the Chelsea must make this a priority as an early exit here could spell the end for their Portuguese coach and any realistic hopes of a trophy this season.


The trident..Hamsik, Lavezzi, Cavani

Napoli’s form has been poor compared to their unbelievable display last season. Coach Walter Mazzarri will not be on the touchline for the Italians after being banned for pushing a Villarreal player during the last game of the group stage. His presence last year, marauding along the touchline often galvanised his side, although he’s cut a more insance character this season. If a team could ever give their coach a heart-attack, Napoli could kill-off theirs.

Mazzarri needs his front three, Cavani, Hamsik and Lavezzi to be the monsters they were last season. They will be gifted chances by a Chelsea side un-aware of defensive responsibilities and must take maximum points from their home game, or at the least draw 0-0. Maggio raiding down the right could be decisive, taking defenders with him and leaving space for the trident.

Saturday, 11 February 2012

Allegri's Path

History, so to speak, has spiral development. Or history repeats itself. ‘Tutte le strade portano a Roma.’ Massimiliano Allegri, Arrigo Sacchi, Alberto Zaccheroni. Wait, what do all these surnames mean? What do they have in common? Or is this a ‘find the odd one out?’

Arrigo Sacchi


Arrigo Sacchi never was a professional footballer. “A jockey doesn't have to have been born a horse”. Sacchi as a fundamentalist tried to suit what was available to his vision. He didn’t need players who were not able to afford given instructions. Sacchi was hired when Milan was hungry as never before and quenched their trophy thirst in first spell at Milan. Sacchi didn’t invent new football but he gave the football his vision.

Alberto Zaccheroni
On the other side, Alberto Zaccheroni won the scudetto also in his first season as Milan coach. Zaccheroni won Panchina D’Oro at Udinese and won the Migliore Allenatore award right after the title. Zaccheroni tactics were non-traditional and fresh-looking but his football was seen through sooner than expected. After his first season Arrigo Sacchi brought two European Cups at Milan’s trophy room. After his first season Alberto Zaccheroni was never successful and Milan hit an interlunation period. Or transitional period, no matter the sound.


If we dig into tactical embellishments and make a thorough analysis, we risk being on the verge of treatise. But the most essential thing now is that spring is coming. Seasonal spring, League Champions spring. When it elapses the treatise will find it’s place.

Max Allegri
Allegri’s legacy will be put into right place. Shadows of coaches who won scudetto in first season stay at San Siro. But they are ghosts and Massimiliano is not. He decides the future: Sacchi turnaround or Zaccheroni turnaround. Allegro or lento.

Massimiliano Allegri, Arrigo Sacchi, Alberto Zaccheroni. Punctuation marks are conditional and perspective. Maybe Allegri’s reign is not destined to be among the greats, but there always a chance to clear the area for new Capello era. If only the latter is not at Juventus under the name of Antonio Conte.

Anton Krainov
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Wednesday, 1 February 2012

ARSENAL-MILAN, C'ERA UNA VOLTA IL CALCIO DEI SOGNI


Tensione durante una partita dell'Arsenal con il Man Utd, 1990

Ci sono stati tempi in cui, dalle tribune di Highbury, partiva il coro “Boring boring Arsenal”. Arsenal noioso, Arsenal di corridori e con pochi piedi buoni. Eppure era anche un Arsenal che vinceva. Con George Graham in panchina, Alan Smith e Niall Quinn che segnavano con la forza di fisici da centravanti vecchio stampo. Con i chilometri macinati da David Rocastle e da Michael Thomas, the history man, quello del gol del 2-0 ad Anfield, nel 1989, quello del campionato conquistato e di “Febbre a 90°” e Nick Hornby. Tony Adams beveva ancora a rotta di collo, ma era un califfo, in difesa. Una linea epica, addirittura diventata citazione cinematografica in “Full Monty”, quando i protagonisti, per coordinarsi nel balletto, si rifanno alla trappola del fuorigioco dell’Arsenal. Dixon, Adams, Bould, Winterburn: uomini in trincea. Ed erano, quei Gunners a cavallo tra gli eighties del tathcherismo e della broken England e i nineties con la nascita della Premier League, gente di lotta. Che governava, ma con il vigore dei muscoli. L’estro lo conferiranno, poco dopo, Paul Merson e Ray Parlour: due tramiti tra il vecchio e il nuovo Arsenal. Ossia, la creatura di Arsène Wenger. Il maestro francese, arrivato a Londra dopo l’era del Monaco e un’esperienza in Giappone, cambia le abitudini dei suoi giocatori e disegna una squadra di puro talento. Non più noiosa, ma divertentissima. Tante le icone di quello stile che, insieme al calcio mitico del Barcellona, rappresenta la più alta cattedra del football europeo nelle ultime due decadi. Dennis Bergkamp, Marc Overmars, Robert Pires, Titi Henry, e dopo Cesc Fabregas, Robin Van Persie, senza scordare l’eleganza di terzini come Ashley Cole, la tecnica di punte muscolari quali Emmanuel Adebayor, o di attaccanti rapaci come Wiltord, e la praticità abbinata alla buona qualità di un Petit, a centrocampo, e poi Freddie Ljungberg. E l’elenco è parziale e fa difetto a tanti altri, a essere franchi.

Arrigo Sacchi
Il Milan ha sempre rappresentato il palato fine del calcio nella città della Madunina. Strano a dirsi, perché l’Inter è bauscia per definizione. Ovvero: strafottente, ganassa, arrogantella nella richieste del bel gioco. D’altro canto, il Diavolo è squadra più popolare. Il Milan dei casciavid, della classe operaia, raccontava Gianni Brera. Ma anche quello di Nils Liedholm, prima, e dopo di Arrigo Sacchi, una specie di Che Guevara della pedata italica. Come disse di sé Luigi XV: “Dopo di me il diluvio”. Sacchi avrebbe potuto utilizzare le stesse parole, quando, nel 1988, trascinò il Milan ad un impetuoso scudetto in rimonta sul Napoli di Diego Armando Maradona. Se l’Arsenal ha fatto la rivoluzione con la lievità del tocco raffinato, il Milan ha puntato tutto sul danaro del magnate Silvio Berlusconi. La sua parabola politica non è cosa di queste pagine, mentre quella calcistica parte da un assunto: il suo approdo nel mondo pallonaro ha rovesciato le carte. Ha segnato la perdita della tradizione, usando come bussola le lire sonanti. Appena sceso dall’elicottero, a Milanello, nel 1986, dopo l’acquisto del club, prese Giovanni Galli, Dario Bonetti, e poi Beppe Galderisi: bandiere di Fiorentina, Roma e Verona. Questo per far capire che, coi soldi, anche la passione si può comprare. Lo stesso avvenne con Lentini, prelevato dal Torino in capo ad un’asta con la Juventus che Berlusconi risolse a proprio favore ma su cui indagarono anche gli organi giudiziari. Tutto questo detto, l’immaginario di un calcio spettacolare, di gran gioco per novanta minuti, intenso ed emotivamente travolgente, quello che era l’obiettivo di Berlusconi, si tradusse in realtà con l’avvento di Sacchi. Una scommessa del presidente rossonero, dato che l’Arrigo, allora, era solamente l’allenatore di un Parma volenteroso di serie B. Che, però, aveva suonato a più riprese il Milan, in Coppa Italia, nel 1987, eliminandolo dalla competizione. Da lì, l’innamoramento berlusconiano e la visione di una chimera realizzabile. E la stessa squadra che si era esaltata con Nordhal e Gren, con il Liedholm giocatore, con Dino Sani, Altafini e Gianni Rivera, intersecò la brillantezza di un calcio ballato con il furore del manifesto profetico del calcio del futuro. Quello di Arrigo Sacchi. Un’eredità filtrata, in forme diverse (talvolta molto all’italiana, per dirla tutta), attraverso le gestioni di Fabio Capello, Alberto Zaccheroni, Carlo Ancelotti e Massimiliano Allegri.

Arsène Wenger
Arsenal e Milan si sfidano negli ottavi di Champions League. L’ultima volta, nel 2008, fu una lezione wengeriana: a Londra, 0-0. A San Siro, Fabregas gioca una partita sontuosa, comanda e segna, al 39’ del secondo tempo, il gol che prenota i quarti. Adebayor, allo scadere, fissa il 2-0. Ora molto è cambiato. Il livello generale del calcio italiano è calato, ma anche l’Arsenal non è più l’orchestra che fu. Gli introiti dati dal nuovo stadio, l’Emirates, non bastano per tenere i pezzi migliori. Wenger ha proposto un nuovo contratto al talismanico Henry, che sta spendendo gli ultimi spiccioli di una carriera magica negli Stati Uniti. Impossibile dire di no a quella che è la propria casa, ma la riflessione che viene è un’altra: dov’è finito l’Arsenal che poteva essere? Certo, con Van Persie c’è Walcott, una covata di giovani destinati a buone, se non buonissime prospettive: Ramsey, Wilshere, Koscielny. Ha trovato un portiere all’altezza in Wojciech Szczesny. Ma il fuoco sacro non risplende più come in passato. Il Milan è tornato allo scudetto dopo sette stagioni. Resta sempre legato alle lune di Zlatan Ibrahimovic, straordinario dominatore dei campionati, ma mai asso di coppa: l’Avvocato Agnelli, l’avesse avuto nella sua Juve (ma gli sarebbe piaciuto? Mah…) non gli avrebbe certo dato il nomignolo che affibbiò a Zibì Boniek, il “bello di notte” per le sue scorribande in ambito europeo.  Sbalordiscono i muscoli di Boateng, un professore come Seedorf ha sempre colpi splendidi, ma non può essere eterno. Ronaldinho è stato una meteora, Pirlo se n’è andato, a fare le sue veci c’è un veterano che è un duro e puro, Van Bommel. Pato sognava Parigi, Tevez è rimasto a Manchester. Sono meno uguali a se stessi, Milan e Arsenal. La poesia è finita con la demolizione di Highbury, San Siro è sempre la Scala del calcio, ma la prosa ha vinto la sua partita.

Matteo Fontana


twitter@teofontana

Wednesday, 25 January 2012


La figurina fantasma

Colpa di Blaz. Blaz Sliskovic, lo ricordate? Mezz’ala bosniaca col vizio del gol degli anni ’80, famoso in Italia per aver giocato nel Pescara di Galeone, assieme a un Leo Junior sul viale del tramonto e ai vari Gasperini (sì l’allenatore di Genoa e Inter), Bergodi, Gaudenzi e i portieri Gatta e Zinetti, che – detto per inciso - non ho mai capito chi tra i due fosse il titolare. I cultori del calcio anni ’80 ricorderanno, idem i collezionisti Panini dell’epoca. La figurina spuntava copiosa dai mitici pacchetti di figurine della stagione 1987-88: eccolo lì il bosniaco dai baffoni neri, sguardo accigliato e occhi profondi. Spuntava, devo precisare, nei pacchetti dei miei amici. Io non l’ho mai beccato e rifiutavo l’idea di procurarmelo tra le doppie degli altri come uno scarto qualsiasi. Baka mi affascinava, lo confesso, e lo volevo conquistare da me. Sarà che non riuscivo a pronunciare bene il suo nome; sarà che lo trovavo il calciatore più stravagante tra tutti quelli delle sedici squadre di serie A; sarà che nel mio inconscio già sapevo che è l’assenza che affascina.

Blaz Sliskovic
Baka non l’avrei mai trovato, la sua restò la figurina incompiuta. Sarà un caso, ma da lì è iniziato a starmi sugli zebedei il Pescara. Che - sarà a sua volta un caso - da quel momento è diventato un po’ la bestia nera del mio Hellas. Il paradosso è che dello Sliskovic calciatore, inteso quello che combinava sul campo, non me n’è mai fregato nulla. So solo che già l’anno successivo il Nostro non compariva più sull’album. Lì per lì, come un amante tradito, mi piacque pensare che fosse stato “il signor Panini” a escluderlo per vendicarmi, manco mi passava per la testa la cosa più ovvia, che il Pescara lo avesse ceduto. Solo anni dopo, un po’ più grandicello e con Internet sottomano, mi son preso la briga di saperne un po’ di più di questo personaggio. Una buona carriera non c’è che dire, anche a Pescara quell’anno (8 gol mi dice Wikipendia). In Abruzzo avrebbe fatto ritorno qualche anno dopo, oramai imbolsito da una carriera agli sgoccioli, richiamato da Galeone. Ora Blaz fa l’allenatore, ma per me sarà sempre solo un eterno spazio vuoto.

Francesco Barana

Monday, 23 January 2012

A gift from Mussolini? Roma and the 1942 Scudetto


Anthony Wright

The 1942 squad photo

The fact that AS Roma have only ever won three scudetti has always been something of an anomaly. Virtuoso players have come and gone, numerous coaches have tried their luck at bringing success to Roma (with varying levels of aptitude), but only Nils Liedholm in 1982/83 and Fabio Capello in 2000/01 have brought the Serie A title to the red and yellow half of Rome since World War Two.

Roma's 1941/42 team

The Italians’ involvement in the war did not stop Serie A from continuing until 1943; one of the wartime championships was won by Roma, their first scudetto, in 1941/42. Hungarian coach Alfréd Schaffer was then at the helm, having previously won the Hungarian league with MTK Budapest after telling the president “no signings [are needed], with the players we have we can win the championship”. There have always been doubts about Roma’s title though, spread by such writers as Gianni Brera and Mario Soldati, and speculation over whether Benito Mussolini helped Roma win the title intensified when coach Helenio Herrera commented in 1971 that “Roma fans are moaning about me; to think that they have only won one scudetto – they should thank Mussolini”. It is safe to say that the comments were not well received by the club hierarchy or its fans, and Herrera was immediately sacked (though was brought back later that same year when Gaetano Anzalone took over as president.)



The '42 Roma side and formation

When the season began, no one even gave Roma a chance of winning the title. Bologna started as favourites, while Juventus and Venezia, who had Valentino Mazzola and Ezio Loik (later of Grande Torino fame) among their ranks, were also tipped to do well. Roma, in fact, had just changed presidents; Edgardo Bazzini had taken over from Igino Betti to be met with distrust from the fans, who were wary that a complete newcomer to football had taken the presidency. The anecdote goes that Bazzini asked Schaffer what he could do to the squad “to entertain the fans and not make myself a fool”. Schaffer replied, “Give me a central midfielder and a mezz’ala and I will win the championship”. In came midfielder Edmondo Mornese and mezz’ala Renato Cappellini, as well as defender Sergio Andreoli, to play alongside the likes of Miguel Ángel Pantó, Naim Krieziu and Amadeo Amadei.



The 20-year-old Amadei was at the heart of the Roma team, and remains the youngest ever player to appear in Serie A (15 years, 9 months and 6 days) and scored eight days later to become – and remain – the league’s youngest ever goalscorer. ‘Er Fornaretto’ scored 18 goals for the Giallorossi in the 1941/42 campaign, while Pantó weighed in with 12 as Roma pipped Torino to the title by three points, with Venezia, Genoa and Lazio following close behind the Granata.


So where do the allegations of Fascist involvement come into play? Perhaps the starting point should be Benito Mussolini, and his agenda to evoke the power and symbolism of ancient Rome in his new Italy. “I swear to lead our country once more in the paths of our ancient greatness… The example of ancient Rome stands before the eyes of all of us”, ‘Il Duce’ proclaimed. Simon Martin, in his excellent Sport Italia: The Italian Love Affair With Sport, points out that football was a “perfect metaphor for Fascism’s idealised society”, and the hosting of the World Cup in Italy in 1934 allowed Mussolini to showcase how “Fascist hard work and creativity had transformed Italy, [and] its athletic elite would leave no doubt about the rejuvenation of the race”. With Italy’s victory in the World Cup (unsubstantiated conspiracy theories abound over this as well, but that is a topic for another day), the regeneration of Italian sport on a macro level was complete; on a micro level, was it time for Rome to regain its status as the centre of Italy and wrest the Serie A title from the clutches of the northern clubs? So some have argued.

The winning (own) goal in the controversial derby


Roma’s sporting director Eraldo Monzeglio (who in early 1942 volunteered to join the Italian army on the Russian front, along with club masseur Angelo Cerretti) also happened to be a friend of Mussolini and allegedly oversaw some favourable refereeing decisions. One such occasion was on 11 January 1942, when Roma and Lazio were level at 1-1 in the derby after 90 minutes. In the second minute of injury time, Maximiliano Faotto scored an own goal to put Roma 2-1 ahead. Laziali allege there was a blatant push on Faotto that saw player, ball and all sent over the line, but the referee was happy to allow the goal and Roma won the stracittadina. Unfortunately for the Lazio faithful, their team were also indirectly contributing to Roma’s first scudetto as they took four points off eventual runners-up Torino and six points off third-placed Venezia over the course of the season.

It should be said that Roma also felt the other end of refereeing decisions, such as in the clash with Torino on 10 May 1942 when the two teams were tied at the top of the table on 32 points. With Roma leading 2-1, Amadei thought he had scored his hat-trick until referee Giovanni Galeati disallowed the goal for an, at best, dubious offside decision before allowing Walter Petron’s goal to stand, even though it was debatable whether the ball had crossed the line after coming down off the crossbar. Il Littoriale called it “a draw that should have been a Giallorossi win” while Il Giornale d’Italia recorded that “Roma emerged unbeaten from the Granata’s pitch after a scintillating game that they deserved to win”. In the end it was, fortunately for Roma, of no consequence.

There is a theory that surrounds the fact that players at clubs in the north suffered from trauma and were unable to sleep due to the bombing of cities in the north of Italy during 1942, but research has shown that bombings against Italy by the British occurred briefly (and largely ineffectually) in 1940 before a more systematic bombardment began in October 1942, after the 1941/42 season had concluded. Furthermore, regarding the war, there is little to suggest that Serie A’s strongest clubs were deliberately weakened by the government. Some have argued that the best players from the likes of Torino and Juventus were forced to perform their military service (served for 18-24 months by 20 and 21-year-olds), but only one player (Nicolosi Nicolò of Atalanta) is unaccounted for from the top six teams from the 1940/41 season. The likes of Mazzola and Loik from Venezia not only played in the key games towards the end of the season but appeared in both matches against Roma – a full rundown of the statistics can be found here (PDF).


Rather than a scudetto won with the aid of Mussolini, are the theories simply the creation of a media bemused by the title disappearing south for the first time? The league title had never been further south than Emilia-Romagna; perhaps some felt there had to be a reason why the likes of Bologna, Torino and Juventus had been beaten by the Giallorossi. Such rumours were seemingly given credence by Roma’s instant return to mediocrity as they finished 11th out of 16 teams in the 1942/43 championship. Serie A was then postponed until 1946/47, and after a series of poor campaigns Roma were even relegated for the only time in their history in 1950/51.

Massetti and Piola give a fascist salute before the derby



Mussolini himself was actually far from a fan of the beautiful game. Although he had become paid Lazio 1,000 lire to become a member of the club in October 1929 and attended their match against Napoli the following year, it is rare to see photos of ‘Mussolini the footballer’. Contrast this with his appearances on motorcycles, skiing or fencing (a personal favourite) among other sports, where Mussolini sought to portray himself as the iconic athlete to embody the Fascist ideal of the physically and morally perfect Italian. Mussolini even requested that Tazio Nuvolari should bring his Alfa Romeo P3 to his state residence at Villa Torlonia in 1932 in order to be photographed with the great racing driver and his car.


Roma tifosi have often pointed out in defence of the title that, with Allied forces having already bombed northern Italian towns in 1940 and Italy becoming increasingly involved in the war, Benito Mussolini must have had more important things to concern himself about than the winner of the Serie A title. In fact, they have argued, since Mussolini had come to power in 1925 and Roma had been a professional club since 1927, why had Il Duce waited until 1941/42 to involve himself in calcio?!


So the 1942 scudetto: a unique campaign inspired by Amadei or a gift from Mussolini? It seems that the numerous conspiracy theories surrounding the title win can be rationally explained, but in the years following Roma’s first title there were far more serious problems facing the Italian nation than whether or not their leader had interfered in the destiny of a sporting trophy.


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Friday, 20 January 2012


La vita, una partita di calcio


Riflessioni tra Hellas, Arsenal e il mondo intorno



La Curva Sud
Dannazione Jack! L’hai fatto un’altra volta! Patito di Hellas che sei altro! Come se i tuoi pensieri non fossero già troppi e la nostalgia una tentazione facile. Pensavi alla “ragazza perduta” (cito Nick Hornby e non a caso) e… e ti è venuto in mente Remondina. O meglio, il suo Hellas, perché messa così sembrerebbe che la ragazza in questione assomigli allo sgraziato e (fin troppo) onesto allenatore di Rovato. Fosse così sgraziata non sarebbe male averla perduta, vero Jack? Ergo non ci penseresti più di tanto, ti pare? E quanto a onestà… be’ lasciamo perdere. E poi chi mai soffre per le donne oneste? Il fatto è che se ti dico Erica tu mi rispondi Hellas 2009-10. Se pensi a Mandorlini i flash della memoria ti riportano al momento del suo arrivo, il 9 novembre di due anni fa, quando te e l’Hellas eravate impantanati nelle sabbie mobili di un drammatico sprofondare; ma ancora ignari dell’euforia insperata che avreste vissuto solo qualche mese più tardi. 20 giugno 2011: Halfredsson e compagni nel catino infernale di Salerno, mutato subitaneamente in dorato giardino dell’Eden al triplice fischio di Di Paolo. Te con Silvia, l’alba di una nuova speranza. E ricordi quando mi raccontavi di Michele Cossato e Martina? 24 giugno 2001, il tuo stato d’animo messo in subbuglio da troppe contraddizioni. La gioia per la salvezza di Reggio Calabria e per l’”eroe” Supermike, ma anche la tristezza, la rabbia e la frustrazione per la tua prima storia andata definitivamente a puttane proprio quel giorno. Martina che ti pianta in asso e te, unico in Bra, a non riuscire a gioire fino in fondo, in mezzo a un mare di gente gialloblù in giubilo e agli amici di sempre.
Nick Hornby

Dannazione Jack. Dannati i tuoi pensieri. Me lo dici sempre, provocatorio come ami essere: “Tifo Hellas, sono di sinistra e romantico di natura. Ma nascere juventino, ladro, capitalista e cinico trombatore no?”. E’ solo uno dei tanti paradossi con cui ti piace condire i tuoi discorsi. La verità è che sei orgoglioso di tutto ciò. Anche se la tua squadra negli ultimi vent’anni è stata in A per un solo lustro, e gli ultimi quattro se li è fatti in C. Anche se le elezioni le perdi quasi sempre e nelle poche che vinci scopri che i “tuoi” si comportano come gli altri, quelli che ti stanno sul cazzo. Anche se delle tue trombate di una sera non te ne è mai fregato niente, mentre ti frega troppo di quelle due-tre che ti hanno rubato il cuore e poi l’hanno fatto a pezzi. Eppure una volta me l’hai detto tu, con quel tuo sorriso disincantato e gli occhi grandi da sognatore: “Sono storie di vita. Sono storie di calcio. E a volte è difficile scinderle del tutto”. Te come lo scrittore inglese Nick Hornby. L’ho letto sai il suo libro? La tua vita come il suo “Febbre a 90”. Lui l’Arsenal, te il Verona. Le vicende dei “Gunners” e dell’Hellas a intersecarsi coi vostri dischi, i lavori e le aspirazioni. Con le vostre donne e i vostri amori. Londra Nord come Borgo Venezia. L’infanzia e le iniziazioni adolescenziali. L’età adulta, che adulta del tutto non sarà mai. Perché il calcio è amore (per un club) ed è come l’amore (per le donne). E l’amore è l’incantesimo con cui torniamo a sentirci un po’ bambini. Scrive Hornby: “Mi innamorai del calcio come mi sarei poi innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente”. Riflessivi mai. Illusi e delusi, felici e perduti. Ma vivi.

Francesco Barana


giornalista, già collaboratore de "L'Arena" e "Il Corriere di Verona". Hornbyano e caposseliano.

Wednesday, 18 January 2012

Fuga per la vittoria


Soldati afghani

Il Garda era malinconico, Kabul molto di più. Ci piovevano le bombe, ci giravano i carroarmati. E, quella domenica – era Pasqua –, loro se ne andarono alla spicciolata. Al diavolo la nazionale, al diavolo l’Afghanistan. Al diavolo anche la partita di beneficenza che avrebbero dovuto giocare, al Bentegodi. Una celebrazione del centenario del Verona. Pure in ritardo, a dirla tutta: la data di fondazione dell’Hellas è il 1903, e la gara si disputa nel 2004. Il 13 aprile. Nove uomini in fuga. Passaporto afghano, arrivati in Veneto su invito della comunità solidarista “Popoli”. Spariscono durante una passeggiata per le vie strette di quella Peschiera che li aveva ospitati. L’anfitrione, al camping-residence “Villaggio dell’Uva”, è il conte Piero Arvedi, presidente del Verona, ricco possidente della zona, che in seguito morirà, nel 2009, per i postumi di un tragico incidente stradale, di ritorno da una trasferta a Cesena, tamponato, in corsia d’emergenza, da un polacco che si era ubriacato per l’amore infranto per una donna. È, quello del basso lago, l’ampio territorio, tra campagne e aziende agricole, che fiancheggia il parco divertimenti Gardaland: intravedendo un Colorado Boat, l’Ikarus e la ricostruzione della Valle dei Re, gli afghani avevano iniziato a immaginare il loro, di paese dei balocchi. In tuta e scarpe da ginnastica, se ne vanno così.

Il ct della selezione, Mir Alì Asgar Akbarzola, parla di “una bravata. Motivi politici? Ma no, più che altro è l’attrazione per l’idea dell’agio, del benessere”. Eppure non importano tanto le Adidas ultimo modello, i giubbini da vela di Prada o le macchine veloci. Via, noi non ci torniamo sotto il piombo, nel paese che brucia. Addio Kabul, addio per sempre. Nomi e ruoli dei fuggitivi: il portiere titolare Mhammad Nader e la sua riserva, Jamshed. Tre difensori: Ahmmad Zia Aazemy, Basher Sadat e Rohollà. Due centrocampisti, Najibollha Karim e Shafiq Akbar Zada, e due attaccanti: il capitano Ahammad Zaki e Said Thair Sha.

Piero Arvedi
Verona era triste, in quei giorni. L’Hellas era in crisi profonda, rischiava la retrocessione in C1. Soltanto una settimana prima aveva perso per 6-0 al Partenio, contro l’Avellino di Zdenek Zeman, beccando cinque “paste” solo nel primo tempo. La squadra era stata contestata con un fitto lancio di uova, da parte di centinaia di tifosi, alla ripresa degli allenamenti. Un fiacco 0-0 in casa, con il Messina, la vigilia di Pasqua, non aveva placato le ire di un pubblico che si sentiva gabbato, tradito, truffato. Ma nulla poteva descrivere i patemi dei nove che se n’erano andati. Non c’erano sconfitte sportive, non c’erano calci di rigore o colpi di tacco o cross sbagliati. Non si fecero vedere, non si fecero sentire. Non chiamarono nemmeno Abdullah Amirian, il portavoce della delegazione dell’Afghanistan, elegante e raffinato architetto che viveva a Firenze, e che parla un impeccabile italiano. Neppure con Mohamed Anwar Jekdalak, il presidente del Comitato olimpico locale. Jekdalak è stato il miglior amico di Ahmad Shah Massud, il leone del Panshir, che aveva studiato le tattiche di guerriglia di Mao, Giap e Che Guevara, che aveva combattuto i sovietici, negli anni ’80. Era stato ucciso in un attentato, nel 2001, due giorni prima dell’attacco alle Twin Towers, a New York, con una bomba, inserita in una telecamera, da due arabi che si erano finti giornalisti di un’emittente marocchina: Al Qaeda, per una versione, i talebani, per un’altra, ma la paternità di quel gesto non fu mai rivendicata da nessuno. Con lui, si era spento una possibilità di libertà. L’unica, forse, per un paese martoriato da violenze e miserie.

I talebani, già. Con loro il calcio era stato nascosto, in Afghanistan, tramutato in un motivo d’imbarazzo, un’offesa per la morale. Raccontò, in quei giorni, proprio il ct Akbarzola: “Nel 1994 ho disputato l’ultima partita da capitano della nazionale, contro l’Uzbekistan. Ero un terzino destro. Un giorno stavamo dirigendo un allenamento per i ragazzi più piccoli. Sono arrivati i talebani e ci hanno chiesto come mai stessimo praticando quello sport. Non sono neanche riuscito a parlare: con il calcio del fucile mi hanno spaccato i denti. E non abbiamo giocato più”. Orrori da cui sparire. E si erano come dissolti, i nove. Le prime indicazioni riferiscono del probabile tentativo di riparare in Germania o in Olanda oppure in Francia, dove più facilmente avrebbero potuto trovare sostegno, vista la più massiccia presenza di afghani. Con il sogno di ottenere lo status di rifugiati politici. Erano, in patria, semplici lavoratori, con impieghi ordinari: operai, bottegai, gente che era uscita dalle mostruosità del regime talebano e che, ora, viveva con la guerra per la strada, davanti alla porta di casa. Erano giovani e forti, poco più che ventenni. E l’Europa, l’Italia, quelle strade appena addolcite dallo struscio pasquale, con il profumo dell’aria soffice e appena inebriante del lago, erano state una tentazione irresistibile. Si erano guardati e si erano detti: “Non torniamoci, in Afghanistan. Kabul è troppo cattiva. I nostri familiari? Troveremo un buon posto, chissà, a Berlino, a Amsterdam, o ad Amburgo, o a Rotterdam, o a Parigi. E allora li chiameremo. Col tempo, se saremo fortunati, li faremo venire da noi. E ci riabbracceremo, finalmente. E staremo in pace”.

Già, questo dovevano aver pensato. Il calcio? Ci avrebbero perso poco, a rinunciarci, visto che il professionismo, in Afghanistan, non esisteva più dal 1987. Pane, il pallone, non ne avrebbe portato, e la gloria era un’utopia per gli ingenui. Intanto, però, c’era quella partita da giocare. Akbarzola si arrabattò chiamando qualche calciatore recuperato qua e là, nell’Occidente più vicino, soprattutto in Inghilterra, o sceso da Francoforte. Era martedì, i nove erano scomparsi da due giorni. La serata era umida e fredda, seppure fosse primavera. Allo stadio di gente se ne vide pochina, nonostante, in apertura, ci fosse stata una sfida di vecchie glorie: i campioni dello scudetto del 1985 e altri ex della storia gialloblù. Ma l’Hellas se la passava così male che gli entusiasmi erano ai minimi, e l’umore della piazza era sotto i tacchi.Il Verona 2004, sonoramente fischiato all’ingresso in campo, vinse per 5-0 sull’Afghanistan, un paio di gol li fece Emiliano Salvetti, piedi vellutati, da Zidane di provincia, e la perenne saudade per la Romagna, da cui veniva, l’aria riservata e pochi sorrisi. Tutto finì con una risottata e qualche bicchiere di prosecco, nella sala accoglienza dello stadio, tra Preben Elkjaer, Hans Peter Briegel e Pierino Fanna.

Adrian Dumitru Mihalcea
Per sapere dei nove, nel frattempo, si è mossa anche la BBC, con il suo ufficio di corrispondenza, a Roma. Le indagini portano a delle supposizioni: la probabile partenza dalla stazione ferroviaria di Peschiera, con l’Eurocity diretto a Monaco di Baviera. Ma, poco per volta, in tanti vengono colti dal pentimento, dalla paura per i propri cari, in Afghanistan, per le possibili ritorsioni. Ed emergono nuove verità. Salta fuori che già prima della partita col Verona, quatto di loro hanno chiamato, dalla Germania, per rientrare e giocare: non sarà, tuttavia, così. Un altro viene fermato dalla polizia di frontiera, a Chiasso: con sé ha soltanto una borsa della spesa. Ma nessuno di loro è sul volo Air One che, alle 18 di mercoledì 14 aprile, con scalo ad Abu Dhabi. Dagli Emirati, il ritorno a Kabul. E, intorno a quegli uomini in fuga, sale una cortina fumogena. Qualcuno sostiene che, uno dopo l’altro, si siano arresi e abbiano accettato di andare in Afghanistan. Altri, i più, assicurano che avrebbero ottenuto ospitalità nelle comunità dei loro connazionali con cui avevano preso contatto, nel resto d’Europa. Protetti dalla clandestinità, prima, e poi liberi. E c’è chi garantisce che in molti, sui campetti polverosi di un arrondissement, o fra i palazzi di Norimberga, o nei tornei dei circoli dopolavoristici della Ruhr, calcino ancora il pallone. Con le pance appena un po’ più sporgenti, con i baffi meno scuri. Ricordando quella Pasqua a Peschiera, e quel treno che correva via veloce, pieno di desideri. Nel frattempo, a giugno di quell’anno, il Verona, riuscì a salvarsi, vincendo le ultime quattro partite del campionato. E, in una di queste, a Venezia, l’attaccante romeno Adrian Dumitru Mihalcea segnò dopo un coast-to-coast a metà tra Maradona e Weah, settanta metri con il pallone incollato ai piedi. Una magia: fuga per la vittoria. Come quella dei nove. Kabul era così distante che non ci arrivavano nemmeno le cartoline.

Matteo Fontana 

Twitter: @teofontana
casualsculture@gmail.com

Tuesday, 17 January 2012

Milano Still Red, Not Blue This Season





Although the momentum now seems to be with the blue and black stripes, rather than the red and black ones, I still believe Milan are superior to Inter and proved that in Sunday's Derby Della Maddonina.

This may be a controversial belief but Milan were the better side on Sunday, as emphasized by the statistics. Milan lead the corner count (10-2), the shots count (15-12), and possesion, with an incredible 67%. Inter's tactic was to defend and hope to counter, as going toe to toe with the il Diavolo would have meant defeat. Ranieri relied on a superb defensive performance from verteran pair Lucio and Walter Samuel, a Nerazzurri wall that Milan could not breach.

There were times when Milan could and maybe should have netted. Pato missed a sitter from 9 yards with only Julio Cesar to beat, whilst the excellent Mark Van Bommel rattled the crossbar on the stroke of half-time. The second half was much tougher as Inter dropped deeper, and the task proved in-surmountable for Milan after Abate's mistake allowed Milito to slide home half-way through the half. After the goal, Milan seemed resigned to defeat, with the introduction of youngster Stephan El Shaarawy being the only bright moment within 45 minutes of darkness.

It's easy for us writers to have the benefit of hindsight, but if Abate's horrible mis-judgement of Zanetti's cross field ball hadn't occurred, it's very difficult to make a case for Inter to have scored at any point in the second half. Sure, they had a chance at the end of the first half through Alvarez, but that was created more through coincidence rather than skill and desire.

Credit should be given in fairness to firstly Ranieri. Must maligned in England, he understood his sides capabilities in such a game and tactically maybe gained an upper hand on Allegri, who didn't seem to have a 'Plan B'. Secondly, credit to Javier Zanetti. Anything that could be said about the Argentine has already been said. The only thing I can add to the list of compliments is that in all my Calcio years, he is the one player who you could count on one hand the amount of bad games he's had. A legend, one who even Milan fans will find hard to dislike such is his professionalism.

Milan will bounce back from defeat. The Scudetto is still there for the taking. As Juventus proved in drawing at home to Cagliari, they're not unbeatable and have shown a few signs of tiredness in the past few weeks. Milan have experience and will come strong much like they did in the second half of last season.

As for Inter, their current run points to an air of confidence that may be carrying them slightly. The biggest test is not maintaining their amazing run, but bouncing back when defeat knocks them down. Ranieri has experience of these situations before, most notably with Roma in 2009-10 and will be taking things one game at a time (doesn't every Calcio tactician?).

Inter won the derby but Milan are still the top team in the city. Over time Inter can rebuild their squad and stake their claim to be not only the number one in Milano but also in Italy. Milan's time is now however, and will still be at the top fighting for the Scudetto by the end of the season.

Charles Ducksbury


Twitter:@cducksbury

charles.ducksbury@hotmail.co.uk

Milito scores in the derby